Domenico Oppedisano (condannato a 10 anni) e il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri
REGGIO
CALABRIA – Ogni fenomeno criminale ha il suo vertice. Solitamente ogni vertice
ha un nome e una immagine come punto di riferimento. Ha volte si tratta delle
immagini del capo dei capi in manette, in altri casi di vecchie foto in bianco
e nero di boss ancora “in erba” tanto giovani quanto pericolosi oppure di foto
ricostruzioni in digitale dell’aspetto che si ritiene possa avere il ricercato.
Tutto questo vale ma non in Calabria, dove la ‘ndrangheta resta un male
difficile da estirpare, senza un volto e senza una storia personale da
raccontare, cosa che rende difficile (e forse impedisce completamente) la
trasmissione del messaggio anti criminale attraverso i mezzi di informazione.
Lo dimostra la sentenza arrivata ieri a conclusione del primo atto di un processo
che già si annuncia storico. Il maxi processo “Il Crimine” che ha visto sfilare
davanti al Gup di Reggio Calabria, Giuseppe Minutoli, ben 118 imputati. Alla
fine di questa prima offensiva giudiziaria si registrano 90 condanne ma quello
che stupisce è la “leggerezza” della pena. La condanna più alta, inflitta al 65enne
Giuseppe Commisso (conosciuto nelle cosche come “u’maistru”), ammonta a 14 anni
e otto mesi. Oltre a lui altri boss locali e provinciali, e gregari come
Antonino Pesce (6 anni a fronte dei 10 chiesti dall’accusa), Rocco Lamari (8
anni invece di 20), Cosimo Giuseppe Leuzzi (8 invece di 20), Giovanni Alampi (8
invece di 16 anni richiesti), Carmelo Costa (7 anni invece di 16). Tutte
condanne inferiori alle richieste. Troppo poco tempo in carcere per chi si macchia
di questo genere di reati. Seppure il risultato finale sembra dare un po’ di
giustizia a tante morti, il senso di insoddisfazione c’è ed è impossibile
nasconderlo. La ‘ndrangheta resta un mistero quasi impenetrabile. Una anomalia
nella più generale anomalia del crimine organizzato di tipo mafioso. Una
struttura ignota, nomi sconosciuti, realtà tutte da scoprire. E se è vero che
mancano personaggi illustri a cui collegare le tante vicende delle ‘ndrine, c’è
un volto chiaramente riconoscibile tra le fila dei magistrati e delle forze
dell’ordine impegnate quotidianamente, e a rischio della propria vita, contro
il crimine. Il più importante è quello di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto
di Reggio Calabria, uno dei giudici (assieme a Michele Prestipino, Giovanni
Musarò, Antonio De Bernardo e Maria Luisa Miranda) che ha puntato l’indice
contro il sistema della criminalità calabrese. Non è un caso se dai suoi
commenti post sentenza appare un velato clima di insoddisfazione, quasi di
amarezza. Il pensiero è forse rivolto a Domenico Oppedisano, già ribattezzato
da tutti i giornali come il “capo dei capi” della ‘ndrangheta, condannato a
dieci anni a fronte della richiesta avanzata proprio da Gratteri di una severa
condanna a venti anni (praticamente un ergastolo considerando le 81 primavere
dell’imputato). Non è lui il capo dei capi che dimora, secondo Gratteri, in
Calabria e dalla Calabria esercita il suo potere. Oppedisano era il padre
nobile di un certo sistema, un punto di riferimento, un garante. “Oppedisano
non è il Riina della Calabria – ha dichiarato il Procuratore ai microfoni di
Repubblica.it – non imprende ma è, piuttosto, il custode delle
regole del codice n’dranghetista, profondamente diverso da quello mafioso”. E
anche il quadro generale appare confuso seppure i contorni sono sempre più
illuminati dall’attività investigativa. Due i punti deboli dello stato in
Calabria. Da una parte la struttura familistica del fenomeno criminale e, dall’altra,
la paura di scoperchiare un vero e proprio vaso di pandora. La conferma arriva
dallo stesso Gratteri: “La struttura familistica della ‘ndrangheta, all’interno
della quale bastano due o tre famiglie per comporre la cellula locale dell’organizzazione,
ha fatto sì che non ci fosse nessun collaboratore di giustizia di primo
livello. Il legame di sangue è molto forte ed è quasi impossibile trovare un
esponente di primo piano disposto ad accusare un parente stretto. Quello che
serve alla ‘ndrangheta, e che contribuisce a rafforzarla a scapito dello Stato –
sostiene Gratteri in riferimento al secondo punto – è la quotidianità del
fenomeno. Quotidianità raggiunta dopo decenni di vita “normale” all’interno del
tessuto sociale calabrese. Fin dagli anni ’70 i figli dei boss hanno studiato e
sono diventati medici, ingegneri, avvocati e hanno scalato i vertici della
macchina burocratica”. Non è da escludere, dunque, che parte dei controllori
sia segretamente in combutta con i controllati. Le sue sono parole importanti e
servono a fare chiarezza. Il primo round del maxi processo e le prime 90
condanne non sono una vittoria dello Stato. “La ‘ndrangheta non è stata
sconfitta – afferma il procuratore lapidario – la mafia resterà invitta fino a
quando non cambieranno il sistema penale, il sistema carcerario e il sistema
scolastico. Fino ad allora non arriveremo al giro di boa che ci consentirà di
sostenere che la ‘ndrangheta (e più in generale la mafia) è stata sconfitta”. Restano
quei novanta volti che, seppure non impressi nella mente della “pubblica
opinione”, da oggi sono dietro le sbarre. La scoperta della struttura
gerarchica fatta dalla procura resta un mistero ma, con la sentenza di ieri,
entra per la prima volta in un atto giudiziario di condanna. Secondo gli
inquirenti la ‘ndrangheta agisce in “ordine sparso” su due livelli gerarchici.
A livello “locale” le famiglie dispongono della totale autonomia circa i
business che vogliono intraprendere a patto che si attengano alle regole del
codice criminale. Il livello superiore, detto “Provinciale” interviene solo in
due casi negli affari locali: o per sanzionare la violazione del codice, o per
porre un freno agli eccessi di una faida. “Il Crimine” è il terzo grande processo
alla ‘ndrangheta dopo “Olimpia” e “Armonia” ed è scaturito a seguito di una
maxi retata (operazione “Infinito”) svoltasi tra la Calabria e la Lombardia
dove gli affari dei clan sono numerosi. In quella occasione, era il 13 luglio
del 2010, furono arrestate 300 persone. Resta ancora libero, secondo la
Procura, la mente, il vertice della struttura di cui restano ovviamente ignote
le generalità, circostanza questa che contribuisce a mantenere in piedi il
mistero della ‘Ndrangheta.
Paolo Luna
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