ROMA – O sei mafioso o non sei mafioso in un paese normale, “terzium
non datur”. Invece in Italia sì ma sappiamo bene che l’Italia non è un paese
normale. Dopo 15 anni e una condanna in secondo grado a 7 anni per concorso
esterno in associazione mafiosa in Cassazione salta fuori che forse, tutto
sommato, il giudizio dei magistrati non è poi così scevro da errori e
imperfezioni, un po’ dettate dal caso e un po’ dai pregiudizi. Una situazione
da Congo Belga o da Burundi non da “democrazia europea” (condizione che abbiamo
recentemente acquisito grazie all’incoronazione di San Mario Monti da
Bruxelles). Questo è quello che ha deciso la camera di consiglio della V
Sezione della Cassazione, chiamata a decidere i destini del senatore Marcello
Dell’Utri da 15 anni al centro del vortice giudiziario che lo ha visto accusato
di essere referente nazionale di Cosa Nostra, punto di collegamento tra il
crimine organizzato e i vertici politici incarnati nella “oscura” figura di
Silvio Berlusconi. A “difendere” Dell’Utri in camera di consiglio non è stata
tanto la difesa del senatore Pdl (avvocati Krogh, Federico e Di Peri che hanno esultato per il politico assente) quanto il procuratore generale Francesco
Iacovello, che sarebbe dovuto essere il grande accusatore e concludere con una
esemplare condanna la mirabolante impresa giudiziaria che ha mosso i primi
passi a Palermo "grazie" all’operato del Pubblico Ministero Antonio Ingroia che
era riuscito a far condannare il politico prima a nove anni nel 2004 e, in
secondo grado nel 2009, a 7 anni. Invece no. Iacovello ha fatto il giudice, non
il "santo martire ispirato dallo spirito santo" e ha riconosciuto un paio di
elementi veramente sorprendenti. Innanzitutto la presenza di “gravi lacune
giuridiche” nella sentenza di appello. Il che significa dare dell’asino ai
giudici di Palermo. Secondo il Pg nella sentenza d’appello che condannava Dell’Utri
a sette anni di carcere mancavano le motivazioni e non c’erano elementi
specifici in base ai quali si potesse condannare al carcere un uomo. Ma Iacovello
(che pure, va detto, ha parlato di condotta di Dell’Utri da chiarire) è andato
oltre sostenendo che al senatore non sono stati riconosciuti alcuni dei diritti
dell’imputato, tra tutti, quello del ragionevole dubbio (principio che tocca
diverse garanzie concesse a chi è sottoposto ad un giudizio come ad esempio la
necessità di avere delle prove certe, l’onere della prova a carico dell’accusa,
il principio del dubio pro reo e l’obbligo di motivazione e razionale
giustificazione della decisione, tutti elementi che dovrebbero eliminare il
rischio di una condanna ideologica e faziosa, proprio come nel caso di Dell’Utri).
Insomma Ingroia ha lavorato molto di fantasia, ipotizzando trame e complotti ma
di prove ne ha fornite ben poche. Adesso non volendo scendere sul becero
terreno della polemica politica, che non serve a nulla, resta una anomalia
enorme nell’apparato giudiziario. Dell’Utri è o non è un mafioso? E’ giusto
tenere sulla graticola un uomo per 15 anni e poi scoprire che si sono commessi
degli errori? E’ corretto il modo in cui i Pubblici Ministeri svolgono il loro
lavoro di indagine? E’ giusto incensare e celebrare un funzionario dello Stato
quando ancora non si è scritta la parola fine su una vicenda giudiziaria così
complessa e delicata? E’ giusto che un Pubblico Ministero frequenti comizi
politici e congressi di partito e poi svolga delle indagini riguardo a
personaggi politici di altri schieramenti?
L'intervento di Antonio Ingroia al congresso nazionale del Pdci. Quasi tutti gli analisti definirono quella scelta del Pm un vero e proprio suicidio. Nessuno contesta il fatto che un giudice possa avere idee politiche e nemmeno che le esprima. Il problema è il modo in cui un giudice, soprattutto un Pm (che durante una indagine e un processo ha un potere enorme nei riguardi di un imputato), si muove su un terreno così delicato.
A queste domande non tocca a noi
dare una risposta. Certamente a questo sgangherato paese serve una riforma
della giustizia che sia complessiva e non parziale perché alla fine dei conti,
si tratti di Ingroia, di Berlusconi o di Dell’Utri si tratta sempre e soltanto
di casi “particolari” a fronte dei quali sono migliaia i processi pendenti, mal
gestiti e sbagliati che coinvolgono altrettanti semplici cittadini. E’ a loro
che bisognerebbe pensare più che ai soliti noti. E’ una questione di civiltà.
ROBERTO DELLA ROCCA
P.S.
Tra le altre cose il Procuratore Iacovello ha sostenuto che
parlare di un uomo come “referente nazionale del crimine organizzato” (sia esso
mafia o camorra) non significa letteralmente nulla. Scommettiamo che anche
Nicola Cosentino (che per i Pm è il referente nazionale dei Casalesi) si farà i
suoi bei 15 – 20 anni di purgatorio e poi verrà assolto?
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