La protesta degli operai di Fincantieri all'annuncio della chiusura dei cantieri di Castellammare
VIBO VALENTIA - Un neo meridionalismo in grado di fare i conti con la storia non può che ripartire dai concreti processi economici. Cosicché, per comprendere lo stato d’impoverimento e di debolezza cui è pervenuta la struttura economica delle regioni meridionali nel primo decennio del terzo millennio, si rende necessaria una breve ma opportuna rivisitazione storica. E così, per prima cosa, bisogna ricordare che lo smantellamento del tessuto industriale nel territorio dell’Italia delle Due Sicilie ebbe inizio proprio 150 anni fa. Esso prese avvio, infatti, con la chiusura degli stabilimenti minerario metallurgici di Mongiana nella Calabria Ulteriore che, ironia della sorte, in nome del liberismo e delle privatizzazioni ispirate dai potentati economici europei della seconda metà dell’800, vennero venduti in seguito all’asta promossa dall’Intendenza di Finanza di Catanzaro con bando del 25 giugno 1874. Proseguì con la desertificazione delle esperienze tessili disseminate un po’ in tutte le regioni del vecchio Stato del Sud, a partire dall’inedito caso di San Leucio in provincia di Caserta che, per l’innovativa tecnologia industriale delle manifatture tessili e per la sua straordinaria ispirazione socio-economica introdotta in quel frangente storico del 1789, era stata conosciuta al mondo con il nome di “Real Colonia” collettivistica di tipo “comunista”. Si trattava infatti di quel settore tessile del regno napoletano che, sin dal 1813, aveva visto fiorire altresì la realtà avviata da Giovan Giacomo Egg con lo stabilimento di Piedimonte d’Alife. Struttura industriale quest’ultima che, seppure con l’annessione del 1861, l’indirizzo dei processi economici era stato orientato al rafforzamento del triangolo padano, aveva avuto la forza di resistere alle varie congiunture fino a pervenire nel 1925 a rinascere come S.p.A. Manifatture Cotoniere Meridionali. La sua robustezza economica settoriale e il suo naturale radicamento lungo il corso della storia, nonostante la distruzione dell’opificio operata dall’esercito tedesco il 19 ottobre 1943, era sopravvissuto ancora fino a pervenire al grave stato di crisi degli anni ’50 del secolo appena trascorso. Sicché, in un contesto di depauperamento, il tessuto industriale introdotto naturalmente dal processo economico innescatosi agli albori della rivoluzione industriale, in quel che è stato il fecondo ed intraprendente territorio siculo – napoletano, rischia ora di chiudere definitivamente con il cantiere navale di Castellammare di Stabia. Si tratta, nonostante la partigiana propaganda negativa verso l’intraprendenza produttiva dell’italica penisola meridionale, della più antica fabbrica di navi conosciuta nella modernità per le sue straordinarie tipologie lavorative. Castellammare di Stabia, infatti, sin dal ‘500 costituiva quello che in gergo moderno viene definito come un distretto manifatturiero, legato a numerosissime attività di natanti prodotti artigianalmente. In quel periodo fecondo, numerosi opifici avevano raggiunto una capacità organizzativa e professionale in grado di costruire navigli complessi, che andavano oltre i semplici pescherecci. Tale crescita, del tutto naturale per l’abbondanza della materia prima attinta nei boschi del demanio, costituiva una grande ricchezza per l’ingegno dei vari e numerosi maestri d’ascia, il cui talento si tramandava gelosamente di generazione in generazione. In un crescendo operoso, dunque, grande impulso aveva avuto di poi nel 1783, grazie all’allora primo ministro del governo di re Ferdinando IV di Borbone, Giovanni Edoardo Acton .
Il cantiere infatti aveva varato tre anni dopo il “Partenope”, la prima imbarcazione di una lunga serie di vascelli, fregate e navi da guerra. In quel periodo, con i suoi 1.800 operai, era divenuto il maggiore stabilimento navale dell’intera penisola italiana. Grazie alla sua espansione, per le innovazioni progettuali d’avanguardia, era pervenuto il 18 gennaio 1860 al varo della moderna fregata ad elica, la “Borbone” di 3680 tonnellate, lunga 68 metri e larga 15, con la quale si chiudeva il vecchio sistema delle lenti e pesanti imbarcazioni di legno a poppa tonda. Ciò era stato possibile grazie agli stabilimenti metallurgici di Pietrarsa, che avevano raggiunto una capacità tecnologica in grado di produrre un motore di una potenza tale da erogare ben 457 cavalli di forza motrice. Per non parlare della dotazione di cui la fregata stessa era fornita, sempre con prodotti delle industrie siderurgiche e metallurgiche del regno napoletano. La fregata “Borbone”, infatti, possedeva 8 cannoni rigati da 160, 12 cannoni lisci da 72, 26 pezzi da 68 e 4 cannoni da 8 in bronzo.
Cosicché, il cantiere navale di Castellammare di Stabia, nel periodo che va dal 1840 al 1860, aveva sfornato un quantità di imbarcazioni per ben 43.000 tonnellate. Successivamente, nel 1931, il cantiere varò la famosa “Amerigo Vespucci”, quindi nel 1939 entrò a far parte di Navalmeccanica fino ad arrivare, nel corso del 1943, alla semi-distruzione delle sue attrezzature. Ricostruiti gli stabilimenti del cantiere navale, il primo dopoguerra vide Castellammare realizzare per conto della Marina Militare il recupero dell'incrociatore “Giulio Germanico” affondato precedentemente dai tedeschi in ritirata. Nel 1956, ricostruito come cacciatorpediniere, l’incrociatore recuperato venne varato col nome di “San Marco”. Frattanto nel 1955 la società Bacini & Scali Napoletani venne assorbita dalla Società Esercizio Bacini Napoletani che era stata fondata nel 1954, dopo aver abbandonato la Navalmeccanica.
Si pervenne in tal modo al 1966 allorché, integrando l’Ansaldo di Genova, il triestino Cantieri Riuniti dell’Adriatico e Navalmeccanica di Napoli, il 22 ottobre vide la luce la società Italcantieri appartenente al gruppo IRI. Fu Italcantieri che nel 1972, con il cacciatorpediniere Ardito, varò l’ultima unità militare a vapore per conto della Marina Militare. Nel 1984, infatti, la società venne interamente rilevata dalla nuova holding finanziaria Fincantieri appartenente alle Partecipazioni Statali che, in tal modo, ne assumeva in proprio la direzione operativa, precedentemente soltanto controllata.
Giuseppe Bono, Ad di Fincantieri autore del piano da 2551 esuberi
Tra una crisi aziendale e un’altra, Fincantieri attraversò gli anni successivi fino ad arrivare ai nostri giorni a presentare un piano industriale attraverso il quale, dichiarando 2551 esuberi, vorrebbe smantellare due siti produttivi con in testa proprio quello di Castellammare di Stabia. La corale protesta dei lavoratori ha finora impedito che passasse il disegno che voleva la sua chiusura e il 9 novembre scorso, un’intesa sottoscritta al ministero dello Sviluppo Economico, ha garantito l’attività per realizzare la commessa per la costruzione di due pattugliatori già ordinati dalla Guardia Costiera. Tuttavia, sarebbe un grave errore se la vertenza restasse congelata nella routine delle crisi aziendali cui i potentati economici nazionali ed europei ci hanno abituati ad approcciarci. Se così fosse, con le solite litanie dei dati economici o delle diseconomie, le crisi di mercato e quella neo finanziaria, al prossimo attacco il cantiere affonderà come soccombettero in passato le aziende siderurgiche e tessili che, chiudendo sul nostro territorio hanno rilanciato i siti di altre regioni del nord, della stessa ricca Europa e di alcune aree asiatiche. Ecco perché, tanto per restare soltanto alla cantieristica navale e alle attività portuali, un nuovo concreto meridionalismo che non sia soltanto evocativo di un glorioso passato potrebbe ripartire proprio da Castellammare di Stabia, dal porto di Gioia Tauro e da Termini Imerese, per citarne solamente alcuni. Il misurarsi su questo terreno, forti della consapevolezza storica di ciò che avvenne poco prima, durante e dopo il 1860, non potrà che fare la differenza rispetto alla servile ed inconcludente classe dirigente che spadroneggia indisturbata a rappresentare il nostro popolo nei consessi istituzionali che contano oggigiorno a livello locale, nazionale ed europeo. Quel che serve, in sostanza, è la consapevolezza di dover ricostruire subito un nuovo blocco sociale che sappia dare voce e dignità all’intera area meridionale. Un blocco che, disincantato dall’astratta retorica e libero dal condizionamento culturale ultracentenario, sappia saldare gli interessi materiali delle neo generazioni del sud, cui è negata tuttora la prospettiva di poter utilizzare diversamente le proprie risorse umane e naturali che li circondano, con l’orgoglio dell’appartenenza a una realtà geografica straordinariamente proiettata come avamposto commerciale nel bacino del Mediterraneo. Area che però, per uscire da questo asfissiante giogo in cui è stata relegata, ha bisogno di credere che ricostruita a sistema economico produttivo, ha le carte in regola per ritornare competitiva nel contesto globale più di altre aree che, paradossalmente, per le rigidità socio - economico - strutturali che hanno accumulate nel tempo, ora si trovano avviluppate come non mai.
Michele Furci
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