Periodico di attualità, politica e cultura meridionalista

sabato 10 marzo 2012

L'EDITORIALE/ Dell'Utri processo da rifare. Che paese è questo?



ROMA – O sei mafioso o non sei mafioso in un paese normale, “terzium non datur”. Invece in Italia sì ma sappiamo bene che l’Italia non è un paese normale. Dopo 15 anni e una condanna in secondo grado a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa in Cassazione salta fuori che forse, tutto sommato, il giudizio dei magistrati non è poi così scevro da errori e imperfezioni, un po’ dettate dal caso e un po’ dai pregiudizi. Una situazione da Congo Belga o da Burundi non da “democrazia europea” (condizione che abbiamo recentemente acquisito grazie all’incoronazione di San Mario Monti da Bruxelles). Questo è quello che ha deciso la camera di consiglio della V Sezione della Cassazione, chiamata a decidere i destini del senatore Marcello Dell’Utri da 15 anni al centro del vortice giudiziario che lo ha visto accusato di essere referente nazionale di Cosa Nostra, punto di collegamento tra il crimine organizzato e i vertici politici incarnati nella “oscura” figura di Silvio Berlusconi. A “difendere” Dell’Utri in camera di consiglio non è stata tanto la difesa del senatore Pdl (avvocati Krogh, Federico e Di Peri che hanno esultato per il politico assente) quanto il procuratore generale Francesco Iacovello, che sarebbe dovuto essere il grande accusatore e concludere con una esemplare condanna la mirabolante impresa giudiziaria che ha mosso i primi passi a Palermo "grazie" all’operato del Pubblico Ministero Antonio Ingroia che era riuscito a far condannare il politico prima a nove anni nel 2004 e, in secondo grado nel 2009, a 7 anni. Invece no. Iacovello ha fatto il giudice, non il "santo martire ispirato dallo spirito santo" e ha riconosciuto un paio di elementi veramente sorprendenti. Innanzitutto la presenza di “gravi lacune giuridiche” nella sentenza di appello. Il che significa dare dell’asino ai giudici di Palermo. Secondo il Pg nella sentenza d’appello che condannava Dell’Utri a sette anni di carcere mancavano le motivazioni e non c’erano elementi specifici in base ai quali si potesse condannare al carcere un uomo. Ma Iacovello (che pure, va detto, ha parlato di condotta di Dell’Utri da chiarire) è andato oltre sostenendo che al senatore non sono stati riconosciuti alcuni dei diritti dell’imputato, tra tutti, quello del ragionevole dubbio (principio che tocca diverse garanzie concesse a chi è sottoposto ad un giudizio come ad esempio la necessità di avere delle prove certe, l’onere della prova a carico dell’accusa, il principio del dubio pro reo e l’obbligo di motivazione e razionale giustificazione della decisione, tutti elementi che dovrebbero eliminare il rischio di una condanna ideologica e faziosa, proprio come nel caso di Dell’Utri). Insomma Ingroia ha lavorato molto di fantasia, ipotizzando trame e complotti ma di prove ne ha fornite ben poche. Adesso non volendo scendere sul becero terreno della polemica politica, che non serve a nulla, resta una anomalia enorme nell’apparato giudiziario. Dell’Utri è o non è un mafioso? E’ giusto tenere sulla graticola un uomo per 15 anni e poi scoprire che si sono commessi degli errori? E’ corretto il modo in cui i Pubblici Ministeri svolgono il loro lavoro di indagine? E’ giusto incensare e celebrare un funzionario dello Stato quando ancora non si è scritta la parola fine su una vicenda giudiziaria così complessa e delicata? E’ giusto che un Pubblico Ministero frequenti comizi politici e congressi di partito e poi svolga delle indagini riguardo a personaggi politici di altri schieramenti? 

L'intervento di Antonio Ingroia al congresso nazionale del Pdci. Quasi tutti gli analisti definirono quella scelta del Pm un vero e proprio suicidio. Nessuno contesta il fatto che un giudice possa avere idee politiche e nemmeno che le esprima. Il problema è il modo in cui un giudice, soprattutto un Pm (che durante una indagine e un processo ha un potere enorme nei riguardi di un imputato), si muove su un terreno così delicato.

A queste domande non tocca a noi dare una risposta. Certamente a questo sgangherato paese serve una riforma della giustizia che sia complessiva e non parziale perché alla fine dei conti, si tratti di Ingroia, di Berlusconi o di Dell’Utri si tratta sempre e soltanto di casi “particolari” a fronte dei quali sono migliaia i processi pendenti, mal gestiti e sbagliati che coinvolgono altrettanti semplici cittadini. E’ a loro che bisognerebbe pensare più che ai soliti noti. E’ una questione di civiltà.

ROBERTO DELLA ROCCA

P.S.
Tra le altre cose il Procuratore Iacovello ha sostenuto che parlare di un uomo come “referente nazionale del crimine organizzato” (sia esso mafia o camorra) non significa letteralmente nulla. Scommettiamo che anche Nicola Cosentino (che per i Pm è il referente nazionale dei Casalesi) si farà i suoi bei 15 – 20 anni di purgatorio e poi verrà assolto?  

1 commento: