Periodico di attualità, politica e cultura meridionalista

lunedì 25 giugno 2012

Distruggi una famiglia? Due anni è la pena. Questa è la giustizia italiana



TRAPANI - Rabbia assordante, giustizia quasi silente. Il patteggiamento salva Fabio Gulotta dall’esigua pena di due anni per aver travolto ed ucciso con la sua auto un’intera famiglia la sera del 15 gennaio 2011. Strage, ingiustizia, rabbia. Una sequenza che torna troppo spesso a ripetersi e a ribadire la damnatio incessante delle stragi al volante. Triade dannata, quasi scontata, che, tuttavia, risuona assordante quando ad essere sterminata è un’intera famiglia, quella dei Quinci, assaltata  da un giovane 22enne alla guida di una Bmw, mentre ritornava alla propria abitazione di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani. Baldassare Quinci, maresciallo dell’aeronautica militare, alla guida di una fiat 600, viene travolto da un impatto con l’auto del giovane Fabio Gulotta, perdendo la moglie, Lidia Mangiaricina, e i figli, Martina e Vito, rispettivamente di 12 e 10 anni. Solo il capofamiglia sopravvive all’impatto, seppure gravemente ferito, riscontrando seri danni alla colonna vertebrale. Lo corrodono a poco a poco la mancanza e il rimpianto della sua famiglia distrutta, nonché l’indignitosa accusa. Gli inquirenti, infatti, gli contestano un concorso di colpa, in quanto non si sarebbe fermato allo stop. Un’accusa a cui non riuscirà a sopravvivere e che lo porterà al suicidio sei mesi dopo la strage. Non basta, però, la condanna del giovane Gulotta a riscattare il peso di quattro vite distrutte: accusato di omicidio colposo plurimo, viene condannato a soli due anni. Oltre il danno, anche la beffa. La pena viene sospesa per patteggiamento. Questa la decisione presa dal tribunale di Marsala, che ha accettato la richiesta dei difensori del giovane, nonostante l’omicida guidasse oltre il limite di velocità e con un tasso alcoolico superiore ai limiti, seppure di poco, permettendogli di non trascorrere neanche un giorno in carcere, evitando, inoltre, il ritiro della patente. L’auto, infatti, viaggiava ad una velocità di circa 120 Km/h, ben oltre il limite consentito per le piccole stradine del paese, e con un tasso alcoolico pari a 0,72 grammi. Una decisione che arriva in un clima di forte sfiducia per la giustizia italiana, soprattutto in seguito ai numerosi casi di omicidi impuniti. Accuse e condanne facili, tuttavia sempre incomprensibili e per la brevità della pena e per la facilità nell’essere aggirate. Ci si domanda se e perché capitino episodi del genere: risposta semplice quando ci si sofferma sull’immaturità e la sconsideratezza, ma ardua se a rendere perplessi è la giustizia che non riesce a mettere in pratica la sua “morale”. Si sente già da tempo di pirati della strada rilasciati dopo pochi mesi di reclusione, stupratori lasciati a piede libero, ricattatori che violentano la libertà altrui, seminando terrore tra i semplici cittadini. Si risponde con la debolezza, ma allo stesso tempo il coraggio di mettere fine alla propria vita esasperati dalla brutalità di un reato subìto. La sensazione di essere lasciati soli dalle istituzioni genera un forte senso di sconforto che induce la maggior parte delle vittime a preferire la morte, perché il ricordo lacera più in profondità del dolore. In altri casi, però, alla sentenza ingiustificata segue la rabbia di quanti ancora sperano in una condanna ai loro occhi scontata. Rabbia che invade chiunque si trovi anche solo ad ascoltare un simile episodio di tracotanza portato alle estreme conseguenze. Non c’è però la punizione dall’alto, il deus ex machina che dovrebbe intervenire alla fine della tragedia. O meglio, c’è, ma solo concettualmente, finendo per far svanire lo scettro di Atena guerriera in un vuoto concetto che non fa altro che legiferare senza punire. Rabbia dei familiari che vedono i loro figli e cari travolti dello spettro di un assassino dichiarato, che, per essere tale, si trova a scontare la sua pena al di fuori del carcere. Perplessità in quanti osservano con distacco interessato stragi simili, che non hanno fine con la parola ‘giustizia’, mentre cresce sempre più la convinzione di essere soli, lasciati in balia di un pendolo tra vendetta e suicidio

FRANCESCA CAMPAGNIOLO

Nessun commento:

Posta un commento